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sempre e ovunque Quanne u fiote s’accarne ogne vibrazione devènde museche da dà, camèine, scappe e po’ abbuaisce patrune-e-suotte, du timbe e du sune.
I quattro versi di Sempre e ovunque, testo ancillare con cui si apre la nuova raccolta di Vincenzo Mastropirro, Poésìa sparse e sparpagghiote. Poesia sparsa e sparpagliata, (prefazione di Nicola Pice, postfazione di Anna Maria Curci, CFR, Piateda -SO- 2013), valgono quale spia polisemica, e sono versi-emblema di un procedere erratico alle cui origini risiede un moto di libertà al contempo, stilistica, ritmico-prosodica, e di visione. E sono versi in cui da subito si manifesta quella particolare, connaturata predisposizione del dialetto a rendere con fresca musica la visione, ad appercepire dati immateriali e intuitivi nella fisicità perfetta e concreta delle cose: ‘il fiato che s’accarna’. Sono dunque versi-emblema di una possibilità di dire (panica e sensoriale, percepibile e ponderabile) liberamente, mettendo da parte, ma non per questo necessariamente ignorando, sovrastrutture di pensiero e strutturazioni retoriche. Una istanza di libertà (a cui, per altri versi, pare riferirsi anche Nicola Pice in prefazione) che sposa una timbrica ariosa, investendo la sonorità dei testi con una particolare percezione musicale (è Anna Maria Curci nella perspicace postfazione a rimarcare il dato): quasi ovvio ricordare che Mastropirro ha all’attivo tre raccolte di versi, appare in svariate pubblicazioni collettive e in antologie con sue sillogi, inoltre è un apprezzato compositore e flautista, ed ha inciso svariati CD. In Sempre e ovunque, ad esempio, una quartina costituita da un settenario, un dodecasillabo, e due endecasillabi, la struttura si appoggia alla sonorità ritornante in semi-rima , ora dissonante ora pseudoderivativa, ‘ne’: quanne, s’accarne, ogne, vibrazione, camèine, patrune, sune; l’effetto è di strutturazione forte, o coesione, ritmologica: quasi un andantino.
…me disse: “la poesia dialettale non la sopporto, non è niente.” Pote ìésse, ma nan ce crède, la poésèi è tutte e nudde inde a totte re lingue du munne e pure cu la maje, chère de Riuve ma spécialmède chère de mamme ca stè chiandote ‘ncope avvetote cume nu pirne stritte, affunne ed etìérne. <...mi disse: / "la poesia dialettale non la sopporto, non è niente.” // Può essere, ma non ci credo, / la poesia è tutto e niente / in tutte le lingue del mondo / e pure con la mia, quella di Ruvo / ma specialmente quella di mamma / che è piantata in testa/ avvitata come un perno/ stretto, profondo ed eterno.>
Ignoro chi rivolgendosi a Vincenzo Mastropirro, abbia pronunziato la frase: “la poesia dialettale non la sopporto, non è niente.” Una frase non nuova, sentita spesso (alle presentazioni di libri, ai convegni, ai reading), magari con qualche variazione, pronunziare come un proiettile contro gli autori: “Generalmente non leggo i dialettali” (Bruno Barilli, a RicercaBo 2010, recuperabile su YouTube), “Perché dovrei leggere un autore italiano in una lingua ‘straniera’?” (Giorgio Manacorda, su «Poesia», e su «Annuario della Poesia»). È chiaro che dietro le posizioni acritiche, covino pregiudizi di ogni sorta, ipostasi ideologiche, presunta superiorità della letteratura ‘in lingua’, mancanza di curiosità accademica, sciatteria snob di consorterie editoriali. Come se la migliore lezione del Novecento nostrano non avesse portato alla ribalta i dialettali, come se tutto un mondo, da Pasolini a Zanzotto, da Marin a Scataglini, da Guerra a Baldini, non abbia significato ‘niente’; o come se la ricezione e l’apertura critica e filologica non abbiano insegnato ‘niente’: da Augusto Campana a Isella, da Stussi a Tesio, da Rack a Brevini, da Mengaldo a Gibellini, da De Santi a Zinelli… Sappiamo poi che l’irritazione e il fastidio che covano dietro affermazioni siffatte, svelano più grossolane motivazioni sociopolitiche (la sciocca, velleitaria e vecchissima contrapposizione centro-periferia, città-campagna, capitale(capitali culturali)-provincia, e rivelano una supponenza scolastica e un atteggiamento arcaico, ottocentesco e preindustriale, come della vecchia borghesia nei confronti del mondo rurale: sì, perché ci sono ancora critici in giro, per non parlare degli editor delle case editrici maggiori, che, ignorando la poesia, pensano ai neo-dialettali come a una espressione tardiva e barbarica, regressiva… La qual cosa sposa l’ideologismo posticcio di chi ancora tende a dividere il mondo delle lettere in reazionari e progressisti. Eppure nella chiarezza delle sue parole, e nella limpidezza del discorso, Mastropirro risponde per le rime: la poesia è tutto e niente /in tutte le lingue del mondo: tanto semplice e ovvio, eppure così vero. Viene allora in mente quanto il grande studioso americano Steven G. Kellman va affermando da decenni: “essere tra le lingue del mondo, è vivere tra le lingue” nel suo fortunatissimo saggio sulla poesia meticcia e popolare The translingual imagination (University of Nebraska Press, Lincoln (NE) 2000). Ecco, la poesia nella parlata materna di Ruvo di Puglia, è incisa in un idioma locale eppure sembra inevitabilmente mossa e aperta a ogni informazione o imput di una cultura planetaria o Glocal. Continuare ad ignorare che il dialetto come lingua particolare si iscrive in un contesto planetario ouniversale, vorrebbe dire, per chi fa critica, ma anche per ogni semplice lettore, aver mollato quel filamento di continuità con la tradizione occidentale: con la lezione polifonica e multidisciplinare dell’Umanesimo, con la visione prospettica del Rinascimento. I versi sopra riportati, annunciano che siamo inoltre in presenza di un autore in cui è ancora molto forte la tensione civile, l’osservazione e riflessione sulle cose: si avverte la caratura etica delle parole, la fermezza dell’ostensione, come della proposta. InPrima semmone du dumile e dudece, ad esempio, La visione tragica di una spiaggia affollata di corpi di migranti restituiti dal mare, si fa concreto, preciso cronotopo dell’epoca, tra morte fisica e morte morale, un livellamento che riguarda tutti:
Prima semmone du dumile e dudece Inde a chèssa semmone u more è scettote sope a la spiagge murte, murte e murte anze, pore ca stè ‘ngazzote proprje pe’ cusse fatte. L’umene muorene, cu nu-nudde u more è granne e auande tutte po’, quanne se stanghe de stù sckèife accummènze a scquetò cadavere sènza piètò. La gìénde sope alla spiagge è assè la curiosetò altrettante, fegurete… ma èje dà, a disce la veretò nan vaide tanda vèive, anze assalute murte ca caminene.
Allora scrivere in dialetto non è più, non può più essere, la pratica hobbistica e domenicale dell’oleografia del paesaggio e della ‘piccola patria’; scrivere in dialetto si fa testimonianza spatriata, a volte straniata e spiritata, come nel migliore Baldini che torna quasi a modello per testi ironici che ci mostrano un’umanità folle e sui generis (leggasi ad esempio il testo di Mastropirro, U capebanne), di un presente irricevibile:
Quanne stonne cchiù comandande ca truppe vole a dèisce ca chèssa sociétò è malote. Congédòme tutte le comandande e lassome libere re truppe. Lassatene libere.
U capebanne U capebanne è pazze, nan sacce… Fosce assì la banne alle quatte de matèine e la fosce abballò inde u cambe sportèive. Nan stè nesciune ma le banniste abballene bbune. Stè u prime clarenìétte ca è zuppe ma sone aggarbote e u sapene tutte però, stè u fatte ca quanne abballe, fosce scèje tutte fore timbe e la banne se ne vè ‘ndìérre. Quanne le musecande sonene la marce A tubo, nan se capisce cchiù nudde. U capebanne, careche u métruòneme e manne tutte a fanghiule.
Così le riverberazioni dalla storia, come pure dalla cronaca di degrado e di offesa ambientale nella vicina Taranto, sono punto di partenza per una poesia di pensiero, per una riflessione destinale:
L’arie So sapiute ca a Tarande la gènde more pe’ l’arie ‘mbracedèite. Sacce ca a Riuve l’arie è pulèite e la gènte se la gode. L’arie, è proprie ‘nu élémènte strone. È limpede e naturole inde a la pinète cu tande arue t’auande ‘nganne ‘mèzze a re fabbreche e a re cemenire. Sèmbe ìédde è è vèite… è muorte… e l’umene picche ‘nge tìénene a na bbona vèite…a na bbona muorte…
Poésia sparse e sparpagghiote, libro mosso, articolato e maturo, è un diario di bordo, è un viaggio in lungo e in largo nell’esistente e nel presente: il poeta, sembra dirci tra le pieghe del libro il suo autore, è un osservatore e un resistente, in una stagione in cui poco appare chiaro, e quasi nulla sembra resistere alla follia, allo sconcerto del mondo, allo ‘snulleggiante nulla’ (Dario Bellezza) dell’insignificanza e del vuoto pneumatico. La poesia allora è il più accorato, cordiale refrain: “éppìure la spéranze ésìste” (in uno dei testi più toccanti e decisivi: La spérànze) quasi un mantra laico e disincantato da opporre al nicciano ‘panorama scheletrico del mondo’.
L’avanguardie Scrèive museche d’avanguardje ca assemigghje a Romagna mia. U péntagràmme me sckute ‘mbacce e re note me guardene sott’ucchje pe’ cume le fazze sckèife. È nu trè/quarte – dèiche ma lore nan ne volene sapaje de senò. Nan nèghe, ca l’oregenaltò è lendone nu migghje ma u pizze piosce assè alla ‘ggìénde. Però forse è u vère, u pizze nan è tanda bbune e re note onne rasciaune a sckutamme ‘mbacce “…è nu bbune pizze de mìérde.” Recanosce u érròre. Me fìérme. Arragiunaisce. Fazze nu respèire e scangéllàisce tutte. Acchessèje chione-chione vaite merìi re note un-alla-vuolte sotte le colpe sechiure de na gomme arrebbote.
a Gino Tarricone So canesciute nu uomene ca ère cume nu meninne e nu meninne ca ère cume nu uomene. De parlò, nan se ne parlaje ma sendaje tutte e tutte sènza do mè gedizie. Te guardaje e pegghiaje appunde pe’ po’ presendatte u cunde e quanne nan ne petaje cchiue faciaje na fotografèje e deciaje: “acchiaminde bbune e statte citte”.
Sotte u tacche du stevole Ce me sbattene cume nu puolpe sope a nu scoglie de more u core s’arrizze e maine sanghe sanghe russe, sanghe vèive sanghe de zappatiure, sanghe de marenore sanghe ca u sanghe, u omme scettote addavère pe’ sendisse dèisce po’ ca nan si bbune a nudde ca stè lendone da stu munne nu munne ‘ncartote de suolde nu munne ca te desprìézze. Nan è ad-acchessèje, omme note dò e dò ne stome almène èje stoche dò sotte u tacche du stevole fisse, chiandote ‘ndìérre, sèmbe prònde ad allenguò radèisce u cchiù affunne possibele.
La bèlla bellìézze Osce-cume-osce la bellìézze, la bèlla bellìézza passe dalla crune-du-oche e re sckefìézze, re percuarèire invèce, s’acchiene ‘nanze ‘nanze. Mo-appunde è u momìénde de pegghiò re d’acuere tanda file colorote e tutte ‘nzime accumenzome arrète a recamò u munne nu recome spéciòle però, pe’ nu munne ‘nammerote, vèive e colorote.
Tuppe-tuppe Tezzuasce alla puorte e nesciune respuonne, trose e vaide u vute, tutte bianche pèrde u équelìbrie e code scevuaisce, nan stonne appiglie trose inde alla céntìfughe de le penzire e aggire atturne atturne nan ce la fazze a résìste acchje mustre ca me palìéscene a sanghe m’avvereguogne e nan réagìsce le rire ‘mbacce e sole tanne se ne vuonne me sckutene ‘ngudde e sparèscene lendone.
U rasuoje Quanne me fazze la varve, u rasuoje sbaglie nan me fosce manghe nu taghje. È na verguogne. Éppìure nan tènghe la mona fìérme tremuaisce cume na fogghje au vinde. Me pore d’esse précìse ma naune fine a cusse punde. U ségrète so re mone u sacce, so bérefàtte re mone maje e nan me volene fo mole m’accarìézzene e me massaggene cume nesciune acchessèje anche ce tremuaisce quanne me fazze la varve nan me tagghjene. Mo, me guarde au spìécchje. So irriconoscibele. La facce è combletamènde ‘nsanguenote. Ma che cazze stonne a fo?! Me stonne a sfreggiò. So nu omene sènza facce mègghje ad acchessèje, me sènde n’alt-e-tande.
U semafere Velaje trasformamme inde a nu semafere pe’ décìde ci pote passò e ci fermò pe’ sìémbe. È nu sciuche ca m’è sèmbe piaciute. U vìérde pe’ l’uteme du munne u russe pe’ le bastarde u gialle pe’ chire ca tènene ancore na possebeletò. Ce ‘nge pensote bbune a stu scequìétte u semafere, è cume u ‘mbirne, u pregatuorie e u paravèise. Mo le cheliure, capataville viue.
L’utema spiagge U turne de prove è passote e u uagnaune de la pettè pote accuogghje la mundagnie de mìérde c’omme fatte crìésce ‘mbératànde. Re netizie vonne suse-e-suotte la buche de la puoste è vacande, fatte nuve, nan ne stuonne. Tutte è cangiote, vè tutte sotte-saupe u core batte pe’ nudde e re carne nan s’arrizzene cchiue. L’utema spiagge è na bèlla fèdde de carne arrestiute aggarbote e cotte bbone cu na gocce d’acèite sciute au spunde.
u ìjuse osce u munne è achiuse inde a na cose, vaide ce stè l’Italie, nan l’acchje stè inde u ìjuse, rète a nu ripostiglie ‘mbelvetote zuoppe, saule, spavendote e sènza cchiù spérànze
(a Malala Yousafzai) la spérànze éppìure la spérànze ésìste è la storie de na menìénne de cure munne addò re fìémene nan potene parlò, studiò, cambò addò le mascue so u sckèife du sckèife éppìure la spérànze ésìste la ribégliòne l’è fatte parlò, l’è fatte dèisce tutte, tutte chère ca nan se pote dèisce e l’onne sparote ma u colpe è sciute a vute, pecchè avaje capèite éppìure la spérànze ésìste u munne s’è fermote a sendèje, a sendèje ciò ca deciaje e u è ditte a tutte quande, cu re parole giuste, proprie a tutte, umene de giacche e cravatte e u niute de vergogna ‘nganne éppìure la spérànze ésìste